Julián

 

Non dormii bene nonostante avessi preso un sonnifero. Lo avevo preso perché non avevo la coscienza tranquilla e sapevo che a un certo punto della notte, che fossi profondamente addormentato o completamente sveglio, sarebbe comparsa Raquel con i suoi rimproveri. Mia moglie non mi avrebbe permesso di mettere quella ragazza in una situazione tanto difficile senza il suo consenso. Mi avrebbe proibito di usarla. Mi avrebbe detto che ero diventato come loro, che la loro malvagità mi aveva contagiato.

Fortunatamente Sandra era lì, seduta accanto a me, ma i rimorsi mi impedivano di guardarla negli occhi. Le chiesi come stava senza staccare lo sguardo da Stella, la barca di Heim, ormeggiata a qualche metro di distanza.

«Bene», rispose, poi si mise a raccontarmi quello che più o meno sapevo sarebbe successo con il povero cagnolino.

«Non capisco», concluse. «Hanno un giardino e una casa così grandi che un cane non potrebbe certo dare fastidio, anzi sarebbe di compagnia, li proteggerebbe. E poi c’è Frida, che gli potrebbe dare da mangiare. Sono rimasta allibita dalla reazione di Karin.»

«Mi dispiace», dissi, dispiacendomi davvero, pentendomi sinceramente, ma senza confessarle che Fred e Karin usavano cani di quella razza per terrorizzare i prigionieri nel campo di concentramento (era uno dei loro tratti più noti e caratteristici, perciò la loro reazione mi confermava senza alcun dubbio che si trattava di loro). Sei cani di razza, forti e assassini come i loro padroni: li avevano uccisi dopo l’arrivo degli alleati, quando erano stati costretti a fuggire di corsa, stecchiti al suolo con un colpo in testa. Non lo raccontai a Sandra. Avevo bisogno ancora un po’ della sua innocenza.

E mi sentii anche più schifoso e miserabile quando mi confessò che era nervosa perché doveva sottoporsi a un’ecografia per individuare il sesso di suo figlio. Aveva le dita delle mani intrecciate, e su ogni dito medio portava dei grandi anelli. Il sole le illuminava le mèche rosse: aveva i capelli ancora più lunghi di quando l’avevo conosciuta alla casetta, anche se il taglio era asimmetrico, secondo la moda dei giovani. Il piccolo anello al naso brillava. Nonostante tutto quello che si metteva, pensai, era così bella e naturale che non meritavo di starle vicino, di parlarle e di guardare i suoi occhi verdi. Non meritavo che mi sorridesse, né che mi considerasse un suo simile. Anche se eravamo insieme io appartenevo a un pianeta diverso, ero stato costretto ad appartenere a un passato senza perdono.

Avrei potuto sedermi accanto a una rosa dai petali rossi e vellutati o accanto a una roccia o sotto una stella luminosa, e non per questo saremmo stati la stessa cosa. Sandra mi disse che nel profondo del suo cuore avrebbe avuto la sensazione di tradire sua madre se avesse permesso a Karin di vivere quel momento con lei. Aveva dei problemi morali così candidi e così ingenui che veniva voglia di abbracciarla, di proteggerla in una campana di vetro.

«Posso venire con te, se vuoi. Io non sono una donna, non tradiresti tua madre. So come vanno queste cose. Ho una figlia e tu potresti essere mia nipote.»

Non avrei dovuto dirglielo. Con una vera nipote mi sarei comportato come stavo facendo con lei? L’avrei esposta in quel modo?

«Sì, credo proprio di volere che sia tu a venire con me», rispose.

Aspettando che arrivasse l’ora della visita andammo nella zona dei negozi perché voleva comprarsi delle scarpe invernali. Prese un paio di stivaletti neri con la suola di gomma che le arrivavano alla caviglia, sei paia di calzini in offerta e una giacca a vento impermeabile molto ampia. Si mise un paio di calzini, gli stivali e la giacca a vento e infilò in un sacchetto le scarpe da ginnastica e la giacca di lana che indossava. Io mi comprai un giaccone tre quarti che piaceva a lei.

«Ora possiamo andare a fare l’eco», esclamò.

Con gli stivali era alta come me. Camminava per strada come una regina e a me piaceva starle accanto. Ogni tanto starnutiva, come se si fosse presa un raffreddore. Il vento veniva dal mare e portava con sé gocce fredde e salate.

 

Una volta arrivati in clinica ci sedemmo nella sala di attesa finché non la chiamarono. Non mi alzai, le dissi che l’avrei aspettata lì. Fu lei a chiedermi di accompagnarla; non che mi sentissi fuori posto, ma ero consapevole di trovarmi in una situazione che non mi apparteneva, che non meritavo, e non credevo di essere in grado di darle il sostegno di cui aveva bisogno.

Entrammo in una stanza piccolissima dove stavamo a stento, Sandra stesa sul lettino, la dottoressa seduta su una sedia girevole accanto a lei e io in un angolo che reggevo il sacchetto con le scarpe, il maglione, lo zaino di Sandra e il mio cappello.

«È un maschio», annunciò la dottoressa.

Ci fu un momento di silenzio, poi Sandra chiese: «Un maschio? Ne è sicura?».

«Sì, ne sono quasi certa. Guarda, questo è il cuore.»

Sporsi la testa per vedere il monitor, ma era tutto molto confuso, poteva essere un bambino o qualsiasi altra cosa. Devo ammettere che in quel momento mi dimenticai di tutto, anche di chi fossi e di cosa ci facessi lì.

«E sta bene?» domandò Sandra.

«Perfettamente», rispose la dottoressa, passandole della carta assorbente sulla pancia e togliendosi i guanti con uno schiocco.

«Complimenti», dissi io.

«Lei è il nonno?» chiese meccanicamente la dottoressa.

Non rispondemmo: nessuno dei due considerava necessario mentire a qualcuno che non nutriva alcun interesse per noi. Porsi a Sandra la giacca a vento e lo zaino e io portai il sacchetto.

«Un maschio», mormorò Sandra.

Pensai che la cosa migliore fosse sorridere.

«Non so neanche come lo chiamerò, non sopporto la gente che sembra fare figli solo per dare un nome che ha già scelto da cent’anni.»

«Te ne verrà in mente uno. Hai tempo. Che ne dici di festeggiare? Ti invito a pranzo. Andiamo a cercare un buon ristorante. »

Mi stavo comportando da sconsiderato: per nulla al mondo mi sarei dovuto far vedere con Sandra in giro per il paese. Mi rilassai e decisi di confidare nella sorte, sperando che nessuno di quelli che avrebbero potuto riconoscermi ci vedesse insieme. Povera ragazza, era passata dal nido di vipere al serpente velenoso.

 

Le chiesi dove aveva lasciato il motorino e le proposi di andare con la mia macchina a qualche ristorante dell’interno, meno turistico, dove servivano piatti tradizionali; sulla strada avremmo anche potuto visitare qualche posto che ci attirava. Le chiesi di aspettarmi fuori mentre tornavo in albergo a prendere le medicine.

Roberto mi venne incontro per dirmi che era venuta a cercarmi una ragazza con i capelli fra il rosso e il castano, una specie di punk.

«Non è una punk», risposi. «I punk portano catene, abiti di cuoio, creste. Ormai sono quasi scomparsi.»

Dalla sua faccia capii che la mia affermazione gli era piaciuta. Notavo che ogni volta mi rispettava di più, che sotto questo mucchio di rughe e ossa stava scoprendo una vita.

«Bene, a quanto sembra sa di chi sto parlando.»

Lo salutai con la mano mentre andavo verso gli ascensori e poi di nuovo mentre mi dirigevo verso l’uscita con le pillole nella tasca della camicia.

 

Quando tornai dove l’avevo lasciata, trovai Sandra con il mento appoggiato alla mano, immersa in un sogno a occhi aperti. Un’altra persona avrebbe potuto pensare che quella donna fosse annoiata e che non le interessasse niente di ciò che la circondava, ma io sapevo che era esattamente il contrario, che Sandra aveva molto a cui pensare. In quel momento la vita era completamente nelle sue mani, e se avesse voluto avrebbe lasciato tutti noi senza niente. Aveva bisogno di concentrarsi su quel potere e io mi sedetti per qualche minuto rimanendo in silenzio.

Le chiesi di guidare. Aprì la portiera canticchiando.

«Quando torniamo, chiamerò i miei genitori da qualche bar. Non posso tenermi tutto per me, è impossibile.»

«Il mio cellulare qui non funziona, l’ho lasciato in albergo.»

«Non importa, non è urgente.»

«Non saresti dovuta passare in albergo, non è prudente», dissi.

Sandra alzò le spalle.

Passammo una bella giornata. Visitammo alcuni paesini e alla fine di una stradina trovammo un ristorante dove ci servirono delle fette di pane tostato condito con olio d’oliva su cui si poteva spalmare della salsa aioli fatta in casa con un buonissimo sapore di aglio. Gustammo un piatto di salumi misti e Sandra mi raccontò che non le era mai piaciuto né studiare né lavorare, che si annoiava molto facendo entrambe le cose. Aveva finito a fatica ragioneria e suo padre era riuscito a farla entrare in un’impresa edile. Dopo una settimana le era venuta una grande tristezza, dopo sei mesi aveva perso sei chili e di lì a un anno non riusciva più a seguire bene le notizie al telegiornale. Santi l’aveva aiutata molto. Era un mezzo capo, e un giorno le suggerì di farsi vedere dal medico dell’azienda, che le prescrisse un periodo di riposo per depressione. Santi si era comportato molto bene, era affettuoso e si impegnava sempre nel trovare in Sandra delle qualità che lei sapeva di non avere. Le aveva consigliato di approfittare il più possibile della storia della depressione e, una volta finito il periodo di riposo, di licenziarsi, perché quella roba non faceva per lei. Lei aveva uno spirito più artistico. Non tutti erano fatti per stare otto ore fra quattro mura. Alla fine non serviva a niente.

«Quando ho scoperto di essere incinta, il mio primo istinto è stato quello di abortire. Poi però ho deciso di tenerlo. Non so se ho fatto bene. Non so se sarò in grado di crescerlo. Se potrò dargli quello che gli serve. Non so se...»

«Non preoccuparti, i bambini crescono da soli. Sono capaci di vivere in condizioni che non immagini nemmeno. L’unica cosa che devi fare è volergli bene e fargli da mangiare. E non credo che la tua famiglia permetterà che moriate di fame.»

Sandra stava quasi per mettersi a piangere e mi spaventai. Scuoteva la testa come a voler contraddire le mie parole.

«Questo bambino si meriterebbe di avere una madre intelligente, una madre che ha studiato, capace di fargli dei bei golfini.»

«Questo bambino si merita di avere una madre che non pensa queste cose di sé stessa. Tu vali molto, sei più coraggiosa di quanto credi. Tra qualche anno lo capirai: allora ti guarderai indietro e vedrai che eri splendida e che hai fatto quel che potevi con ciò che avevi nel modo più dignitoso possibile.»

Mi guardò con gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime. Stava sopportando un carico emotivo più forte di quello che pensava. Io lo sapevo meglio di lei. Lei non poteva vedersi dal di fuori del labirinto in cui si trovava; per questo, quando si arriva alla mia età e lo si può guardare dall’alto, si vorrebbe tornare indietro e rifare il cammino senza dubbi o paure.

Le diedi il mio tovagliolo di carta perché si soffiasse il naso.

«E adesso ti prendi una bella fetta di torta al cioccolato con panna e io un caffè ristretto. Domani Dio provvederà.»

All’improvviso, come rispondendo a una domanda che le avevo fatto inconsciamente, mi disse che il cucciolo se lo era preso uno degli amici di Fred e Karin. Si chiamava Alberto, ma lei lo chiamava l’Anguilla per il modo viscido che aveva di guardare. Probabilmente la testa le scoppiava per colpa di informazioni di cui non era consapevole al cento per cento. Probabilmente il fatto di dover elaborare dati e particolari che non sapeva mettere nella giusta prospettiva le causava ansia. Pensiamo ci faccia male solo ciò che sappiamo che ci fa male, ma c’è una moltitudine di ricordi e di immagini che provocano una grande malinconia perché non ne capiamo il senso.

«Dice che dovrò uscire con lui un giorno.»

La fissai cercando di scoprire cosa volesse quell’elemento da lei. Da come me lo descriveva, non sembrava il tipico fanatico senza un briciolo di intelligenza. Questo sapeva più di psicotico.

«Non puoi fidarti. Cerca di fare ciò che si aspetta che tu faccia. Quello che non sappiamo è cosa vuole da te.»

«Gli dirò che non posso andare. Non voglio parlare con lui. Andrei più volentieri con l’Angelo Nero, mi ispira più fiducia. »

L’Angelo Nero. L’Angelo Nero? Tedesco, moro, della mia altezza, elegante, affabile, apparentemente equilibrato, intelligente, la mente di qualunque organizzazione. Da quello che Sandra mi diceva, poteva trattarsi di Sebastian Bernhardt. No, era impossibile, la storia lo dava per morto di morte naturale a Monaco nel 1980. Eppure poteva anche darsi che gli fosse venuta nostalgia del suo splendido rifugio spagnolo. Quei topi di fogna entravano da un buco e uscivano da un altro, erano abituati a morire e resuscitare. Dava sollievo sapere che non erano eterni, anche se ci avevano provato, anche se avevano cercato disperatamente l’elisir dell’eterna giovinezza. E a che prezzo. Chiedetelo ai prigionieri, alle vittime di pazzi come Heim.

«Aspetta un attimo. Vado a cercare una cosa in macchina.»

Sandra non rispose, stava mangiando pensierosa il dolce, piccoli pezzi di torta con la punta del cucchiaino.

E quando tornai con l’album di foto di Elfe era ancora nella stessa posizione, pensando a suo figlio, all’Angelo Nero o all’Anguilla, o magari a Karin o a sua madre, che non doveva avere la minima idea di dove si fosse andata a ficcare sua figlia.

«Guarda», le dissi aprendo l’album. «Guarda quest’uomo.»

Era Sebastian. Era in giacca e cravatta e questo facilitava l’identificazione.

Lei lo guardò dopo essersi risvegliata dal suo sogno a occhi aperti.

«Potrebbe essere l’Angelo Nero?»

«Potrebbe. Fuma allo stesso modo.»

Ebbi il dubbio se rivelarle o meno chi fosse l’Angelo Nero: più sapeva, peggio sarebbe stato per lei. Non lo avrebbe più guardato allo stesso modo, o magari si sarebbe lasciata sfuggire il suo vero nome, non gli avrebbe più parlato con il tono franco di chi non sa. Sandra era una ragazza schietta e sincera, senza niente da nascondere, e loro le avrebbero letto negli occhi quel che sapeva. D’altra parte non mi ritenevo capace di manipolarla fino a quel punto. Aveva diritto di conoscere il nido di vipere nel quale si era infilata. Mi aveva reso partecipe di un evento gioioso della sua vita e non dovevo cadere così in basso da tradirla, da vedere come se la sarebbe cavata senza avvisarla che l’abisso era a una decina di metri da lei.

«Devi decidere», dissi. «Devi dirmi se vuoi che ti racconti chi è questo individuo. Ma devi saperlo: ogni elemento in più che ti darò, sarà un passo in più verso l’inferno.»

Il Profumo delle Foglie di Limone
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